Il ritratto
Il merito di Primo Brown:
aver scritto la storia del rap italiano
Il rapper romano scomparso a 39 anni ha avuto un ruolo di primo piano nell’insediare nel nostro Paese un genere musicale nato per gli afroamericani di lingua inglese
Quando si scriverà la storia definitiva del rap italiano, di come un’arte tutta americana abbia trovato nel nostro Paese – così europeo e con una lingua ben diversa dall’inglese così perfettamente sincopato e ricco di parole tronche perfette per l’hip-hop – un ruolo e interpreti importanti, un capitolo da sottolineare con l’evidenziatore sarà dedicato a Primo Brown.
L’artista romano dei Cor Veleno sarà ricordato per il talento, l’impegno nel restare autentico senza commercializzare la sua musica e le sue rime. E la sua morte così tragicamente prematura, a soli 39 anni, non fa altro che rendere ancora più grave la sua perdita per la musica italiana. Se il rap è entrato a pieno diritto nella stanza dei bottoni della nostra musica, se nella patria delle (peraltro nobili e apprezzate nel mondo) canzonette e dei cantautori c’è uno spazio vero per il rap, il merito è anche di Primo.
Nel rap—americano e non – uno dei punti di riferimento è l’iperbole dei testi, quel senso di grandezza – megalomania? – riferito a se stessi e alla propria musica che Jay-Z ha ammesso con franchezza essere una pubblica dimostrazione di vulnerabilità: ma Primo ha dimostrato che l’iperbole abita nel cuore del rap anche per motivi di fede sincera nei confronti della musica, e delle sue possibilità. Si può prendere un’arte degli afroamericani e dimostrare che anche i bianchi possono giocare allo stesso gioco (vedi i Beastie Boys a metà anni ‘80). E si può prendere un’arte tutta americana e dimostrare che un italiano può farla come – e meglio – dei fratelli maggiori d’oltreoceano: Primo Brown l’ha dimostrato, e per questo merita gratitudine, e un saluto pieno di rispetto – lui avrebbe detto, come in una delle sue belle canzoni, «Ciao fraté».